Difficile registrare qualcosa in modo ordinato in questi giorni, ma si può provare.
Casa mia. 11 febbraio, fine mattinata. Un immediato, insopportabile dolore dietro le spalle che si diffonde rapido in zona sterno e lungo il braccio. Vomito. Intuisco.
É un infarto. Silvana telefona al dottore. Nessuna risposta e allora sia 118. Tempo 13 minuti l’ambulanza è davanti a casa. Scendo con i miei mezzi. Mi dicono che non c’è da preoccuparsi. E non mi preoccupo, però non perdono tempo. Decidono per Villa Maria Cecilia Hospital di Cotignola.
Da Comellini a Castel San Pietro si va a comprare prosciutto e leccornie e loro si fermano per far salire il medico che avverte del mio arrivo.
Ci siamo. Mi pare di vivere un film. Salto da una barella all’altra che già corre lungo un bianco corridoio. Brusca frenata e si materializza una sala operatoria. Divise verdi, bianche, blu, sincronie studiate e perfette, bip, luci si incrociano, monitor mostrano percorso e dati, bip, bip, bio qualcosa penetra e si insinua, rallenta, curva, bip, bip, bip…
Ci siamo. Tre e mezzo… meglio quattro? Tre. … bip, bip, bip, … Ormai sono bionico.
La lettiga è già in viaggio. Si sale, usciamo al terzo. Terapia Intensiva. Stanza n. 1.
Son passate due settimane, poco più e ormai l’ospedale è per me un ricordo. Di nuovo tra le mura di casa, il malato che è in me si sfarina giorno dopo giorno. In realtà non mi sono mai sentito veramente malato. La sofferenza fisica è terminata già al momento della partenza dell’ambulanza da casa mia, risolta da una di quelle sostanze miracolose che chi ne sa ed è lì per provvedere ti inocula immediatamente. Dopo, a farti sentire malato contribuiscono l’ambiente, i tuoi cari persino troppo assidui e attenti, la presenza continua degli addetti con le loro divise, la loro gentilezza, la loro determinazione.
E tu Ti guardi intorno e scopri. Perché l’ospedale è ricco di persone e questo, in particolare, di persone che vengono da lontano.
Salerno, Caserta, Fermo, ma anche Africa. Pelle non mente. E sarà che siamo tutti così presi dalle mille paure indotte dai mille aspetti di una globalizzazione non digerita, ma anche qui affiorano fantasiosi ragionamenti intorno a chi dovrebbe o non dovrebbe poter fruire dei servizi di un ospedale come questo.
Il discorso sta sulle generali: – Vede? Ma quanti letti in più ci sarebbero a disposizione per noi italiani? E invece …
Non mi sento di rispondere. In fondo anche lei che assiste il mio compagno di stanza è provata, sicuramente ha sofferto. Eppure dentro di me non posso fare a meno di pensare che anche il suo assistito non è proprio “del posto”.
Cinque minuti e abbiamo una visita. Un fraticello con tanto di stola pronto a farci pregare:
- Sono Padre Giuseppe! Da dove venite?
La provenienza è la prima domanda. E non può essere diversamente in un ospedale come Villa Maria Cecilia al quale si ricorre da ogni parte del mondo e nel quale operano medici di molte parti del pianeta.
Solo io di questa regione. Realizzo che la mia convinzione di essere nato nel tempo e nel luogo migliore si rafforza una volta di più. Non avevo mai verificato di persona l’eccellenza della sanità emiliano romagnola, ora con questa esperienza si colma anche questa mia lacuna.
Il mio coinquilino è marchigiano ed è in partenza. Ma dovrà tornare. Lo hanno ricoperto di prescrizioni, di consigli, di farmaci e… di un nuovo appuntamento.
Padre Giuseppe ormai si congeda. Ma io non resisto:
- E lei, padre, da dove viene?
- Ah… Indovina indovinello!
Non era difficile la risposta, ma preferisco andare per gradi - Intanto … dall’Asia.
- Bravo! Ma l’Asia è grande, fratello!
- E allora, India!
- Perfetto.
Com’è piccolo il mondo! Pochi metri quadri lo spazio, tre giorni il tempo e intorno a me ruotano italiani da Salerno, da Caserta, dalle Marche e ora dall’India…
Non passano cinque minuti e si affaccia un medico. In questi pochi giorni di permanenza non mi era ancora capitato di incrociarlo. Infatti non è venuto per me, ma per dare le ultime disposizioni al mio vicino. Divisa d’ordinanza, grande sorriso, grembiule immacolato, fonendoscopio al collo e… faccia nera. E così lAfrica non è presente solo tra gli ammalati, ma anche fra i medici.
Ce n’è da riflettere. Per tutti.
Grazie India! Grazie Africa! Grazie Italia!