Cari amici,

vorrei chiamarvi così senza che si attribuisse una particolare connotazione politica all’appellativo (vi ricorderete che i democristiani si chiamavano amici e i socialisti e i comunisti compagni). Amici quindi nel senso di un rapporto amichevole e basta. Anche perchè questa lettera non ha come destinatari solo agli aderenti al pd, ma tante persone con cui intrattengo da maggiore o minor tempo una relazione.

Mi riesce difficile non occuparmi di politica. Nel senso letterale della parola, quella che deriva dal greco polis “πόλις”, città e, più chiaro ancora, nella definizione di Aristotele l’amministrazione della “polis” per il bene di tutti, la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano.

Non mancano certamente gli spunti in questi giorni per chi ancora ha in mente le code davanti ai circoli del Partito Democratico formate da cittadine e cittadini impegnati nella scelta dei leader del partito di riferimento.

Superando possibilmente la tentazione di farne la retorica, vorrei anch’io sottolineare il significato sempre più pregnante che di volta in volta assume questa esperienza di partecipazione.

Solo a pensare alle ultime tre occasioni di ampiezza nazionale – 2006, 2007 e 2009 – mi par di scorgere una sorta di work in progress degno di nota, accompagnato da una costante di rilievo: la grande partecipazione.

Nel 2006 fummo chiamati a scegliere il candidato premier mentre nel 2007 e domenica 25 ottobre ad eleggere il segretario del Partito Democratico. Ma dove sta il progress? – qualcuno potrebbe chiedere. Quelle prime primarie (di coalizione) del 2006 proponevano più candidati rappresentanti di forze politiche molto sbilanciate dal punto di vista della consistenza numerica. Nessuno pensava che il vincitore non sarebbe stato Romano Prodi. Forse potevano essere persino evitate, ma assunsero anche un significato che andava ben al di là della scelta del futuro premier, scelta scontata, peraltro. Furono un sigillo importante per la coalizione e costituirono, a parer mio, un trampolino determinante per lo stesso risultato elettorale.

Poi ci furono le primarie per l’elezione del segretario alle quali doveva, in un primo tempo, partecipare un solo candidato, Walter Veltroni, se non fosse stata Rosy Bindi a sfidare il tabù, seguita da Enrico Letta.

Ma il principio che le primarie hanno un senso solo se c’è una vera competizione è maturato proprio con queste primarie Queste ultime possono davvero diventare emblematiche prima di tutto perchè hanno sollecitato il confronto interno nei modi più diversi, non sempre pari alle aspettative di tutti, ma comunque confronto. In secondo luogo, proprio nella pratica del confronto, anche i più refrattari si sono resi conto che scambiarsi le opinioni non porta danni, anzi, permette di approfondire la conoscenza degli altri e di allargare il campo della propria consapevolezza.

Ora che l’obiettivo è stato felicemente per tutti raggiunto, sarebbe deleterio che dopo averne assaporato il gusto si spegnesse la fiammella dell’approfondimento e si cercassero mille scuse per tappare le bocche di chi ha desiderio di sapere, riflettere e parlare, soprattutto di coloro che sono alle prime armi i quali nelle palestre del proprio circolo devono trovare gli spazi per esprimersi.

Se una cosa è certa è che non siamo a corto di argomenti. Ce lo ricordano le stesse mozioni su cui abbiamo discusso, ma più di tutto ce lo ricordano di giorno in giorno i problemi che assillano il nostro Paese. Tutti i problemi, quelli sociali e quelli morali senza farsi scudo degli uni per non affrontare gli altri.

Vorrei, proprio a partire di qui, proporre di tanto in tanto qualche contributo. Niente di speciale, solo la condivisione di letture che hanno destato il mio interesse, sulle quali chi vorrà potrà interloquire, commentare, sottolineare, dissentire, cercando di andare in profondità esercitando il personale potere critico nei confronti del quale l’attacco mediatico si fa di giorno in giorno più subdolo, capzioso, talvolta sornione e talvolta violento, quasi disperato.

Per incominciare dai fondamentali mi piace allora mettere in comune un articolo intervista di Barbara Spinelli su un tema difficile, ma enorme, col quale ognuno di noi è chiamato a confrontarsi prima ancora di prendere posizione sulle questioni quotidiane come il lavoro, la scuola, la salute, i diritti, l’ambiente, l’approccio laico alla politica, le scelte delle persone giuste per il posto giusto: la crisi dello stato nel nostro Paese.

Vi anticipo che la Spinelli è la giornalista che ammiro di più e la leggo sempre con grande curiosità. Tra l’altro qui lancia una sorta di sfida con una interpretazione abbastanza ardita circa la crisi dello Stato negli ultimi sessant’anni.

Sarà che io – questi anni – li ho trascorsi tutti e guardati con occhi prima di bambino, poi di adolescente, di studente, di professionista, di uomo delle istituzioni, di curioso della politica vicina e lontana, sarà per questo, ma il tema mi sembra proprio cruciale.

Pronti? Via!

E grazie per la collaborazione!

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Propongo di iniziare una conversazione sulla crisi non della democrazia bensì dello Stato italiano


di B.Spinelli


CARO DIRETTORE, ho letto lo straordinario commento di Bruno Tinti, il 9 ottobre sul Fatto, e vorrei tentare non un risposta alla sua domanda – ci sono domande che somigliano a una chiamata profetica più che a un quesito – ma una conversazione a distanza. Come siamo arrivati fin qui? si chiede Tinti, per concludere: “La domanda non è, non deve essere: “Questo Lodo Alfano è giusto o no?”, ma piuttosto: “Come siamo arrivati a tanto? Dove abbiamo sbagliato?” Penso che siamo arrivati a questo punto – il rispetto delle leggi che diventa secondario, l’indifferenza a dettati costituzionali come l’uguaglianza di fronte alla legge, l’oblio dei sottili equilibri fra pesi e contrappesi su cui si fonda lo Stato– perché l’idea stessa di Stato è come se non avesse più radici nelle nostre menti, come se non fosse parte della nostra identità nazionale. Più o meno tutti sentono il male e se ne lamentano, ma sulla natura del male si soffermano di rado, preferendo concentrarsi sui suoi effetti: la litigiosità, la disputa. Anche qui, urge la domanda-chiamata: come siamo arrivati a desiderare tregue, pacificazioni, addirittura la fine del conflitto politico, senza chiederci neppure un attimo su cosa gli italiani si stanno dividendo, su quale idea della repubblica, della democrazia, dello Stato, dell’informazione indipendente?


Parole come tregua o fine dell’antagonismo occultano quel che succede, e che rende l’Italia un’invalida in Europa. Anche l’unità della nazione, di cui ci si appresta a celebrare il cento cinquantesimo anniversario, è pensata più all’insegna di armistizi verbali e di retoriche nazionali falsamente unanimi che di una seria disamina delle malformazioni italiane. Se la nazione minaccia di disgregarsi, è perché la costruzione dello Stato italiano s’è a un certo punto interrotta, degenerando. È un disfacimento in atto da decenni, che permea la repubblica quasi fin dalla nascita, e di questi tempi è più che mai palese. Le vicende del presidente del Consiglio gettano una luce specialmente cruda su di esso, e stanno producendo una vera mostruosità dottrinale: al postulato di Bruno Tinti (“Oggi, nel nostro Paese, siamo arrivati a discutere seriamente della non applicabilità della legge penale al presidente del Consiglio, cioè a un cittadino cui è affidato un pubblico servizio, probabilmente il più importante che ci sia in un paese democratico. Siamo arrivati a teorizzare che è giusto che questo cittadino possa corrompere giudici, falsificare bilanci, commettere frodi fiscali, e che però non possa essere processato”) si risponde che la legittimità del governante non viene dal rispetto della legge e non è confutabile in caso di reato o sospetto di reato, ma scaturisce esclusivamente e definitivamente dal verdetto delle urne, dall’unzione del popolo.


È una legittimazione non molto diversa dall’unzione divina, quando il monarca regnava per diritto di Dio. Il popolo ha sostituito Dio, è lui soltanto che acclama, consacra, e questo dà facoltà al capo di ignorare altre fonti di legittimazione, altri poteri che istituzionalmente son chiamati a vegliare sugli abusi di potere dell’esecutivo e di frenarli se necessario. È una sorta di patto del sangue che viene accampato, fra il leader e la maggioranza del popolo, preminente su ogni altro patto e in particolare sui patti che preesistono la nascita delle singole legislature. Al fondamentalismo teo-cratico si affianca un fondamentalismo non meno intollerante, demo-cratico al massimo grado. Il dèmos, o meglio la maggioranza del dèmos, si erge a Dio.


LA CULTURA DELL’ANTI-STATO


Il punto è questo: non è Berlusconi soltanto ad aver corrotto in tal modo la democrazia liberale, dando forma alla democrazia estremista in cui viviamo. Una democrazia nella quale il popolo esercita una sovranità assoluta, non condivisa, refrattaria a controlli da parte di poteri indipendenti: giudici o Corte costituzionale, presidente della Repubblica, organi di garanzia o mezzi di comunicazione. Non è il fondatore di Forza Italia ad aver creato questa cultura dell’anti-Stato, che corrode l’Italia e la rovina. E finché l’esame critico dell’Italia non investirà in maniera approfondita e libera le radici non berlusconiane del berlusconismo, la stessa opposizione sarà disarmata e sterile.


La cultura dell’anti-Stato è antica, nella storia dell’Italia postbellica. Nasce come frutto avvelenato della lotta al fascismo e al modo in cui quest’ultimo ha pensato e guidato lo Stato: esaltandone il peso ipertrofico, e al tempo stesso pervertendo la sua vocazione a essere stato di diritto.Questa torbida combinazione è all’origine del fatto che l’antifascismo si sia in gran parte nutrito di anti-Stato, di anti-patria, giungendo fino a sospettare quasi istintivamente l’esistenza di malvagità nascoste nel senso e nel servizio dello Stato. È un fenomeno che i costituenti nella Germania postbellica hanno accuratamente scansato, ben conoscendo i disastri derivanti dal potere eccessivo del popolo (rifiuto dei referendum) e dall’estrema debolezza dei governi e dell’equilibrio dei poteri nella Repubblica di Weimar. Malgrado un’esemplare costituzione, le classi politiche e imprenditoriali italiane hanno tratto la lezione opposta: i governi andavano indeboliti e tenuti al laccio in vari modi, con effetti rovinosi sulle strutture statuali, sulla loro tenuta e sul loro controllo del territorio.


Per molto tempo la forma Stato, nel partito comunista, era vista come proprietà e terra di conquista dei padroni borghesi. La borghesia imprenditoriale e finanziaria, a sua volta, ha prodotto lungo i decenni personaggi che verso lo Stato nutrivano una sfiducia radicale, desiderandone spesso la sovversione: Cefis, Calvi, Gelli, Sindona. Senza essere un sovversivo, Enrico Cuccia giocò spesso le sue partite a scacchi “senza il senso dello Stato, lui banchiere sommo dello Stato” (Corrado Stajano, Un eroe borghese, Einaudi 1991, p. 210). Alcuni di questi (Cefis, Cuccia) si erano formati nella Resistenza. Negli anni ‘60-’70 l’anti-Stato diventa cultura ancor più diffusa, pervasiva. In nome dell’anti-Stato si formano numerosi gruppuscoli del ‘68, a cominciare da Lotta Continua, e anche gruppi della destra violenta e della mafia che patteggiano azioni criminose con elementi sovversivi presenti nel potere politico e nei servizi. Lo Stato è da abbattere in quanto soggetto congenitamente criminoso, prima negli articoli di Lotta Continua poi nei comunicati brigatisti. È così fino al rapimento Moro, nel1978. Lo slogan più malefico di quell’anno – Né con lo Stato né con le Br rappresentò il culmine del disfacimento e venne purtroppo coniato da un uomo-simbolo della lotta anti-mafia quale Leonardo Sciascia (in seguito lo scrittore si corresse, disse che non intendeva lo Stato in sé ma “quello Stato”. Tuttavia il maleficio restò).


LO STATO COME INTRALCIO


Una disamina coscienziosa della situazione odierna mostra che non c’è vera rottura di continuità fra quel modo di pensare e agire e l’estremismo democratico incarnato da una singola persona che senza remore privatizza lo Stato. Per gli uni come per gli altri lo Stato è qualcosa che intralcia e che entra in conflitto con gli imperativi del governare, a meno di non trasformarlo in una proprietà di un uomo (Berlusconi) o di una parte della società (la classe). Nella dottrina marxista “il potere statuale non è altro che un comitato d’affari che consente alla classe borghese di amministrare i propri comuni interessi”, affermazione che l’attuale capo del governo ricuserebbe, ma senza rinunciare alle virtù e ai vantaggi del comitato d’affari. Qui è la più inquietante analogia con gli anni ‘70, e non in quello che Giampaolo Pansa chiama, sul Corriere della Sera del 13 ottobre, il clima di odio che regna fra politici, tra giornali, tra schieramenti opposti. L’autonomia operaia rivendicata trent’anni fa non è diversa dall’autonomia della sovranità popolare invocata oggi dal Popolo della Libertà. Per l’estremismo di allora lo Stato era “dei padroni”: andava disarticolato. Per quello di oggi esso è dell’eletto, a favore del quale va disarticolato.


Scrive Aldo Cazzullo nel suo libro su Lotta Continua che il momento era a quei tempi specialmente propizio, perché coincideva “con una forte domanda di politica” che saliva da chi politica non aveva mai fatto, e quindi ne respingeva le mediazioni ed era “pronto a irrompere sulla scena con la rabbia della propria condizione e la virulenza –ma anche l’apertura, la disponibilità, l’afflato sociale –propria dei tempi” (I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Mondadori, 1998, pp. 118,9). Per il giornale di Lotta Continua, bisognava “fare da sé” in tutti i settori della vita, dalla sanità all’amministrazione della giustizia. I proletari dovevano “imparare a farsi giustizia da sé: non sarà certo la magistratura, in questa società, a rendere giustizia agli sfruttati. Governare significa e significherà sempre lottare, direttamente e in prima persona, senza affidare nessuna delega ai professionisti della politica” (Lotta Continua 14-2-70). Deluso, Giorgio Pietrostefani confessa nel ‘76: “Io voglio fare la rivoluzione, non la politica”. Questo lo spinse ad approvare e favorire l’uccisione di Luigi Calabresi, nel 1972. I servitori dello Stato, fossero commissari o magistrati o dirigenti politici, erano nemici da punire, pregiudizialmente sospetti. Non erano solo i comunicati della Brigate Rosse a volere la disarticolazione dello Stato.


Per il leader del Popolo della Libertà le cose non stanno molto diversamente. Anche lui denuncia uno Stato in mano a magistrati, a servitori della cosa pubblica non assoggettabili, a poteri forti che gli sfuggono. Anche lui risponde a una “forte domanda di politica che sale da chi politica non ha mai fatto, e quindi ne respinge le mediazioni”. Anche lui vuol fare giustizia da sé, rivendica l’Autonomia irresistibile di un particulare, preferisce la rivoluzione e le scosse violente al professionismo politico, diffida del sistema istituzionale dei “controlli e contrappesi” (checks and balances). Proteiforme, il pensiero degli anni ‘60-‘70 rivive oggi nelle menti di chi governa –e nella maggior parte delle menti di chi è governato– e qui è il vizio d’origine di cui l’Italia fatica a liberarsi.


GLI ERRORI DELLA STAMPA


Il vizio non è la conflittualità intensa che domina la vita politica e che ultimamente è divenuta disputa, aspra, fra giornalisti e testate. Quel che fa scandalo è la tendenza di gran parte della stampa e della televisione a ignorare le questioni poste da chi – in un certo numero di giornali, in numerosi appelli di giuristi come Gustavo Zagrebelsky o Valerio Onida– difende lo stato di diritto, la separazione il più possibile armoniosa di poteri che esso comporta, il pensiero critico che esso deve favorire e custodire, la molteplicità di scelte di vita privata che il potere pubblico è chiamato a rappresentare, vietando a se stesso il ruolo di Stato etico uniformatore. Se l’antagonismo è oggi così intenso, e si è esteso alla stampa, è perché queste domande fondamentali sono eluse, e perché le accuse del capo del governo, spesso accompagnate da minacce e appelli al boicottaggio, non sono prontamente arginate da uno schieramento compatto di chi, nei giornali, dovrebbe esser cosciente e fiero del potere di controllo che la stampa indipendente impersona.


La singolare mancanza di solidarietà nel mondo dell’informazione (la minaccia al singolo giornalista non è considerata una minaccia che incombe su tutti) è un’altra patologia italiana che non ha eguali nelle democrazie ed è legata a due fattori: la completa assenza di editori puri nella proprietà delle maggiori testate, che diano a queste vera autorevolezza, e la tendenza di molti giornali indipendenti a interiorizzare gli attacchi e il linguaggio del potere, in nome di un presunto disinteresse dei lettori per le vicende riguardanti diritto, giustizia, etica dell’uomo pubblico. Accade così che le voci critiche vengano accusate, da giornalisti concorrenti e in anomala sintonia con il governo, di far parte di partiti semi-militari, di eserciti ostili che assoldano i lettori invece di servirli, di forze che sviliscono l’immagine italiana all’estero, di contiguità –appunto– con il terrorismo e il clima d’odio degli anni Settanta. Chi lancia invettive così pesanti finge di ignorare che le voci cosiddette anti-italiane difendono in realtà le istituzioni, la costituzione, e uno Stato non trasformato in comitato d’affari di una persona o una classe ma organizzato come reticolato di autorità che si bilanciano l’una con l’altra, e che consentono alla democrazia di vivere e farsi governare senza che nessun potere diventi esagerato, compreso il potere del dèmos.


I DUE CORPI DEL RE


Il senso delle istituzioni, delle leggi, degli equilibri interni allo Stato sono il nutrimento e il farmaco di cui la democrazia ha bisogno per correggere le proprie tendenze prepotenti e non distruggersi. Sono secoli che il pensiero liberale sostiene che la sovranità del popolo può divenire un dispotismo: Montesquieu, Tocqueville a John Stuart Mill lo dicono a chiare lettere. La sovranità del popolo e l’unto delle urne hanno tutti i difetti che Montesquieu attribuisce al potere (“Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti”) ed è il motivo per cui l’organizzazione di una disciplina s’impone: “Perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere; una Costituzione deve essere tale che nessuno sia costretto a compiere le azioni alle quali la legge non lo costringe, e a non compiere quelle che la legge gli permette”.


Questa è la democrazia non suicida: un regime che diffida a tal punto di se stesso, delle proprie naturali tendenze totalitarie, da costituire accanto alla sovranità del popolo un sistema di regole che precede il voto, che non muta con il cambiare delle maggioranze, che perdura nel tempo, indipendentemente dal colore e dal carisma popolare dei capi. Tale è l’obiettivo che si prefiggono le costituzioni: sono come la corona del re, che dura più del suo corpo fisico. Per questo i canonisti e teologi del Medio Evo parlavano di due corpi del re: uno durevole, personificazione mistica della politica, che vive nel corpo del sovrano sotto forma di corona o di deus absconditus; uno transeunte, che dura la vita o il mandato del governante. Anche la democrazia ha due corpi: il corpo dell’esecutivo che raffigura la maggioranza elettorale, e il corpo più durevole racchiuso nello spirito della legge e nelle regole della costituzione. Leggi e costituzioni sono la corona della democrazia.


Propongo a Bruno Tinti e agli amici del Fatto di iniziare una conversazione sulla crisi non della democrazia bensì dello Stato italiano, di chiedersi se non siamo arrivati a questo punto perché abbiamo coltivato il solo corpo fisico del re, uccidendo la corona. Se non valga la pena pensare i pericoli della democrazia fondamentalista. Se abbiamo dimenticato che regole, magistrati, giustizia, legge, vengono prima della nascita della democrazia e anche prima delle nazioni. È inutile parlare di radici ebraico-cristiane, se un ingrediente essenziale di tali radici –il senso della legge– viene svuotato o mutilato.

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