Ritorno molto volentieri sulla scuola. Mi induce a questo una bella notizia proprio sulla scuola STATALE. Una di quelle migliaia diio amo scuola pubblica notizie che potrebbero passare quotidianamente sulla stampa, nei telegiornali, alla radio, ma sono troppe e troppo belle per essere credute. Appunto, troppe da non sapere quale scegliere, perché nel mio lungo pellegrinaggio professionale di scuole degne di essere menzionate piccole e grandi ne ho conosciute tante, ma proprio tante. L’Italia, a scorno delle scervellate esternazioni del signor B, è ricchissima di queste realtà. Ne ho conosciute sull’Appennino nei primi anni di servizio, nella pianura bolognese, negli anni in cui si trasformavano esperienze pur avanzate di scolarizzazione degli alunni disabili in una piena integrazione nelle scuole comuni, e poi nelle prime esperienze di scuola a tempo pieno nate intorno agli slanci innovativi della ricerca pedagogica e didattica in un quadro partecipativo tanto stupefacente quanto coraggioso. Poi ne ho incontrate molte altre come direttore didattico nel Veneto e poi di nuovo in Emilia Romagna e – infine – in un pellegrinaggio di molti anni in ogni parte d’Italia come formatore in innumerevoli corsi e seminari. Ebbene non so resistere dal fare un’eccezione, avendo scoperto su una pagina dell’Umità di qualche giorno fa un bellissimo “medaglione” della scuola nella quale ho avuto anch’io l’onore di insegnare, la fortuna di far frequentare ai miei figli e ora la gioia di percepirne ancora il valore formativo in due dei miei cinque nipoti.Lascio volentieri alle parole di Bruno Tognolini, premio Andersen 2007 come miglior scrittore italiano per ragazzi, il compito di rappresentare normalità, originalità ed eccellenza di una scuola STATALE italiana.Bruno Tognolini

L’arte della pazienza tra i banchi.

di Bruno Tognolini

Faccio proprio un bel lavoro fortunato. Come un filo da imbastire (“Un filo piccolo che tiene insieme | Fiore con fiume, sole con seme”) cucio l’Italia dal Trentino alla Sardegna, in transumanza poetica, per incontrare le scuole e i bambini. Naturalmente non sono solo in questo viaggio: tanti altri Fratelli e Zii d’Italia, zii scrittori e animatori e librai e bibliotecari e musicanti e teatranti e altri giardinieri del Senso, cuciono il corpo ferito e doloroso della Povera Patria insieme a me. In questo assiduo Gran Tour mi accade spesso di incontrare oasi e giardini di specie e colori diversi, che riposano e ricreano la forza. Voglio PEZZANI 2raccontare l’ultima di queste tappe. La bella e grande scuola primaria “Pezzani” di San Lazzaro di Savena è, governata, come da una regina di fiaba perentoria e allegra, dall’infaticabile Direttrice Silvana Loiero. Lo so che oggi si dice “Dirigente”, ma alcune di loro, pur essendo perfette Dirigenti, son riuscite a rimanere Direttrici; e allora, potendo scegliere, preferisco chiamarle così. In questa scuola, dunque, nelle due volte che m’ha accolto a distanza di sei anni, per due cicli di due giorni densi di incontri con le classi, ho visto questo: si insegna bene, si vive e si gioca bene, si tessono belle relazioni fra gli adulti, gli insegnanti con tutti gli altri mestieri; si accarezzano e si crescono i bambini, con le stesse mani tutti, bianchi e neri e gialli e beige: ed è per questo che le faccette di diversi colori che misi assiepano intorno al tavolo per le firme, alla fine dell’incontro, si danno le stesse spinte e “cucci” e scherzi con gli stessi identici sorrisi. Non sono uguali ma sono tutti insieme. In questa scuola, ultima ma non infima virtù, si mangia bene, molto bene. Nonna Maffi (Mafalda), la nonna diunalunno di diversi anni fa, quando il nipotino frequentava la Pezzani aveva preso l’abitudine di cucinare le sue spettacolari lasagne bolognesi per le maestre, soprattutto quando avevano “ospiti importanti”. Il nipotino è cresciuto e ha lasciato la scuola,maNonna Maffi ha continuato il suo servizio. Infatti (ero stato avvisato) le avrei trovate di nuovo, le celebri lasagne, come sei anni fa. E nel pranzo nella sala di mensa, coi bambini che già avevo incontrato che continuavano a salutarmi con la mano dagli altri tavoli, ecco infatti arrivare la teglia. Le abbiamo mangiate facendone il bis con la Direttrice, le insegnanti, e l’assessore alla cultura delcomuneche versava il vino, e che alla fine ha pagato i caffè chiamati dal bar. Nel faticoso pomeriggio una delle maestre “colonne” della scuola, una donna forte e gentile e raggiante di affetto cronico al mondo, mi ha accompagnato nell’altra scuola del plesso, e mi raccontava: lei insegna lì da venticinque anni, nella stessa scuola. Anzi, nella stessa aula. Nella stessa aula? Venticinque anni? Ho voluto vedere quell’aula, mi ci ha portato alla fine degli incontri, soli io e lei: gli scaffali pieni di giochi, schede e libri (tanti libri), colle e colori e ogni tipo di risorse selezionate darwinianamente inunquarto di secolo; la cattedra, accantonata in una strana posizione perché tanto “nonmici siedo mai”, i banchi schierati lontano dal termo che “va a palla” e con gli spifferi delle vetrate porta malanni. Mi sono sfilate di fronte processioni di pomeriggi di febbraio, di mattine di maggio, di sole, nebbia, influenza, ore rondini e ore tartarughe, generazioni di bambini da crescere ogni giorno. È stato un pellegrinaggio laico in un anonimo sacrario sconosciuto, dove si è compiuto e ripetuto per un tempo lungo unavita il miracolo civile della scuola. Attenzione: non è una fiaba incongrua, innestata e protetta damura nella dura realtà. Negli atri delle Pezzani di San Lazzaro, prima del pranzo, ho sentito la Direttrice discutere desolata con l’assessore sui fondi tagliati per le bidelle, per gli insegnanti di sostegno; sui loro bambini “magici” che resteranno soli, o affidati alle altre maestre che già ne hanno decine di altri da crescere, e alloracomefaranno? L’ho sentita lamentarsi conmedelle gloriose maestre anziane che se ne vanno, e delle giovani che arrivano, molte di loro distratte e frettolose, con la testa altrove, poco entusiaste di un lavoro così screditato e poco disposte a imparare dalle anziane. E dunque? È un giardino condannato ad appassire? Non lo so. So che mi chiameranno ancora, forse fra altri sei anni, e allora vedrò come queste donne valorose hanno saputo combattere le loro battaglie. Ora so quello che ho visto, quello che c’è. E fra le cose che ho visto, voglio finire con questa ciliegina. Mai mi era accaduto che “le dade di cucina”, dopo avere cucinato per noi (non c’erano mica solo le lasagne) e servito in tavola con piglio emiliano da Festa dell’Unità, poi chiedessero di poter assistere almeno a un pezzetto del mio incontro coi bambini nel pomeriggio. Io avevo lodato i loro cibi, loro volevano sentire le mie filastrocche. Davvero, non è piaggeria: che cos’avrei da guadagnarci? Mi è parso un onore grande e raro che queste donne mi hanno fatto, un onore di cui vado orgoglioso. Retorica vintage? Buonismo deamicisiano di ritorno? No, meri fatti, che ho visto girando le lande affrante d’Italia. Resoconto di cose che vede chi legge pure i numeri e le inchieste, ma poi va nei posti. E infine semplice nativo sentire di ramingopoeta: se fosse venuto il vecchio sakem Napolitano mi sarei sentito onorato solo poco di più. Le cuoche! Lelasagnebidelle! Che rubano tempo al loro lavoro – o al loro solito ozio negligente, secondo molti – per venire a sentire il poeta coi loro bambini! Sbaglia chi si rassegna, si scoraggia. Mente chi dice che tutto cade e si rovina. Ci sono giardini segreti, fioriti ettari di tessuto sano, nel corpo dolente d’Italia, che in silenzio, ostinati, addirittura allegri, non smettono di spandere intorno i santi silenziosi anticorpi del rispetto, dell’affetto, della civiltà. “Against all odds”, cantava Phil Collins: contro ogni probabilità, purtroppo oggi. Ma con tutte le umane lasagne che sono possibili.

Sab 5 marzo, aggiornato ore 22:39

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