L’approccio può essere vario. Ma il nodo è contenuto in due domande: Posto che siamo europei e non può non interessarci lo stato dell’Unione, launione-europeaprima domanda è “come sta l’Europa?” La seconda, posto che siamo spesso affascinati dalla frase di J. F. Kennedy “Non chiederti cosa il tuo paese può’ fare per te, chiediti cosa tu puoi fare per il tuo paese”, è ” che cosa possiamo fare per l’Europa?”

Pare proprio che l’Europa sia malata. Una malattia che sta nella sua storia, nelle terribili esperienze del novecento, ma anche con le terapie della seconda parte del secolo e in una serie di ricadute di indifferenza e scetticismo dell’ultima parte di questo decennio. Un allargamento controverso, una costituzione non approvata e una situazione di stallo proprio quando ci sarebbe bisogno di più Europa.

Ce ne sarebbe bisogno per dare una spinta forte e positiva al processo di pace in Medio Oriente, per affrontare in modo unitario la grande questione ambientale e dell’energia, per contare in modo decisivo sulle scelte economiche e finanziarie, per dare un contributo credibile alle politiche che perseguono l’uguaglianza di popoli e persone, per dare gambe solide alle grandi utopie senza le quali il mondo non ha mai camminato in avanti.

Invece all’apertura del recente summit “Millenium goals” sugli obiettivi del millennio il presidente francese Nicolas Sarkozy si è detto favorevole ad istituire una tassa universale su tutte le transazioni finanziarie. Perché una proposta come questa non è venuta a nome dell’Europa? Che forza dirompente avrebbe avuto!

Questo è un esempio. Non ne cito altri, ma propongo alla riflessione di chi vorrà pensarci su un contributo di Barbara Spinelli, capace, come sempre di andare a fondo in questa e in altre questioni cruciali per chi non crede a soluzioni semplicistiche e di chiusura nel “piccolo mondo antico” che non c’è più.

Non si pensi, per favore, che le grandi questioni planetarie non debbano interessare i politici e gli amministratori locali. Planetarie vuol dire, più che mai di tutti, per l’interdipendenza che caratterizza le scelte, anche quelle di un piccolo paese, anche quelle di un singolo amministratore. Ecco perché occorrono nuovi gesti coraggiosi in grado di trasmettere fiducia reciproca.

Ad ogni livello. Cittadini insieme per dare voce alle esigenze delle persone, delle famiglie, dei soggetti sociali, amministratori insieme per condizionare le scelte degli stati, stati insieme per parlare, confrontare situazioni,bisogni, interessi e decidere ad una voce. Utopia? Certo.

Utopico è sempre stato, ed è ancora, sinonimo di tremendamente complesso, difficile, ma mai di impossibile.

Per questo torno per la seconda volta sul tema Europa. Un’utopia in stallo. Mi piacerebbe verificare la riapertura di un grande cantiere ad opera di Stati più disponibili ad una cessione di sovranità che li renda progressivamente più forti, se è vero che l’unione fa la forza.

Purtroppo non è convinzione comune, ma almeno come auspicio lo scrivo con la maiuscola: l’Unione fa la forza.

La forza degli sconfittiBarbara Spinelli

BARBARA SPINELLI

Non molti mesi fa, quando Angela Merkel fu catturata da calcoli politici talmente piccoli e brevi da perdere di vista l’interesse del proprio stesso Paese al salvataggio europeo della Grecia, il filosofo Jürgen Habermas scrisse un articolo importante sulla Zeit, il 20 maggio, in cui la mise in guardia da una paura comune a tanti europei: «Il timore delle armi di distruzione di massa che sono i tabloid popolari non vi fa vedere le armi di distruzione di massa dei mercati finanziari».

È una paura introversa, nazionalista, che rischia soprattutto di vanificare quello che per mezzo secolo è stato in Germania il principale punto di forza, appreso secondo il filosofo grazie all’Olocausto: un’attitudine popolare diffusa a mutare mentalità, ad assumersene le «fatiche infinite», a riconoscere che esistono necessità che generano nuove libertà. La Repubblica Federale nacque con queste qualità. Edificò con Parigi l’Europa, forte delle istituzioni federali che perfezionò in patria e che facilitarono un pensiero post-nazionale.

Si accinse all’immane impresa dell’unificazione, di cui oggi celebra il decimo anniversario, e che ebbe costi altissimi: in 10 anni, più di 1.500 miliardi di euro. Come scrive Bernd Ulrich sulla Zeit del 30 settembre, l’unificazione smosse anche le sicumere della vecchia Repubblica di Bonn, immettendo in essa «16 milioni di punti interrogativi».

Questo adattamento tedesco alla sovranità ridotta (a una «costellazione postnazionale», dice Habermas) ha vissuto ripetute stasi, ma ora sta rivenendo in superficie, potente. Spinto dagli eventi, e dalla consapevolezza che Berlino con le sole proprie virtù non si salva né in Europa né nel mondo, il governo tedesco ha scelto ancora una volta l’Europa: non solo ha consentito al salvataggio della Grecia, ma con tenacia vuole adesso che l’Unione si dia nuove regole per affrontare crisi future. Come scrive Beda Romano, sono le stesse antiche virtù – costanza, tenacia, pazienza – che oggi spiegano l’inattesa ripresa dell’economia tedesca, il realismo ineguagliato dei sindacati, infine la scelta di «impegnarsi in prima fila per il futuro dell’Europa» chiedendo norme più severe e federali per frenare i deficit pubblici (Il Sole – 24 Ore, 1-10-10).

Di qui l’appoggio tedesco alla riforma, proposta il 29 settembre dall’esecutivo europeo, del Patto di stabilità: una riforma che toglie agli Stati il potere di bloccare le sanzioni con una maggioranza di due terzi, creando una disciplina automatica gestita dall’Unione, trasformata di fatto in governo economico. Ancora una volta dunque la Germania è pronta a mutare, e a dare un’impronta europea alla propria leadership economica: purché tuttavia gli alleati colgano l’occasione, scorgendo in essa un’occasione non tedesca ma di tutti.

La storia dimostra che tale condizione è essenziale, perché la paziente costanza tedesca non è affatto continuativa. La preferenza per una costellazione postnazionale si è attenuata quando il Paese, riunificandosi, ha riacquisito parte della sovranità. La sua scommessa europea si è fatta più scettica, egoista: lo slancio di Adenauer e Brandt, di Schmidt e Kohl, si è appannato.

Ma è un appannamento non dovuto solo al computo di tornaconti nazionali male intesi: il computo di chi vede nell’Europa un «interesse esterno», estraneo a quello interno. La regressione tedesca si manifesta ogni qual volta gli alleati (Parigi in primis) si mostrano prigionieri della chimera della sovranità, e si convincono che il suo limite sia un’opzione anziché un fatto.

Quando Kohl trattò con Mitterrand l’unità tedesca offrì la rinuncia al marco in cambio di un’unione politica europea, e non l’ottenne. Non l’ottenne né da Parigi né dagli Stati dell’Est, appena usciti dall’incubo della sovranità limitata teorizzata da Brezhnev nel ’68. Seguirono anni in cui egemone dell’Unione divenne Blair. Oggi non è più così, ma gli animi rimangono riottosi: altre proposte di Berlino sono state respinte, durante la crisi greca, a cominciare dal Fondo monetario europeo e dalla revisione dei trattati.

Resta che la crisi ha messo fine allo stallo europeo, nonostante i cavalieri inesistenti delle sovranità nazionali e le loro armi distruttive. Gli stessi veleni delle dispute tedesche sulla Grecia (i tabloid che invitavano a non pagare per i peccaminosi; la certezza che l’autarchica disciplina fosse un bastevole scudo) hanno prodotto, omeopaticamente, quello di cui l’Europa ha più bisogno: una grande contesa sulla natura dell’Unione.

D’un tratto negli Stati, e specialmente in Germania, si è iniziato a parlare delle condotte degli alleati come di condotte di concittadini di un’unica pòlis. Nello stesso momento in cui si riconosceva che malato non era l’euro ma i singoli deficit pubblici, economie e bilanci cominciavano a esser dibattuti come affare interno europeo.

La necessità della globalizzazione apriva nuovi spazi di libertà, inventiva. Sulla Frankfurter Allgemeine, Klaus-Dieter Frankenberger scrisse, il 26 agosto: «La crisi dell’euro, che è in realtà crisi dei debiti pubblici, può infine riesumare quel che restò incompiuto o fallì alla nascita dell’euro: l’unione politica». Secondo il grande storico Heinrich August Winkler, il neo-nazionalismo tedesco può grazie a tale crisi esser superato: «Nel giro d’una notte, essa risvegliò negli europei la coscienza che nel frattempo era nata qualcosa come una politica interna europea». Quando l’età pensionabile, i salari degli statali, le linee sindacali, la disciplina di bilancio, il debito pubblico d’un singolo diventano oggetti di disputa in altri Stati dell’Unione, quel che si crea è, anche se all’inizio distorto, spazio pubblico europeo: «Al progetto Europa, la crisi offre l’occasione insperata: esso deve esser di nuovo legittimato; non può più essere un progetto di élite» (Frankfurter Allgemeine, 13-8-10).

La Germania ha un vantaggio rispetto a altri europei. Ha una storia maledetta: non mascherabile, falsificabile, come nella Francia postbellica di De Gaulle, nell’Italia delle amnesie, nella Grecia succube per decenni del potere militare Usa. La sconfitta le ha insegnato a vedere le sciagure delle sovranità nazionali totali. Anche la sconfitta dello Stato comunista l’ha aiutata, perché i tedeschi dell’Est sono entrati nell’Ovest tedesco iniettandovi una predisposizione ai mutamenti mentali, ai sacrifici dello status quo, che i connazionali ricchi stavano smarrendo.

Naturalmente, la tentazione di regredire esiste: nello stesso momento in cui apre all’Europa, ad esempio, Berlino torna a chiedere per se stessa (e non per l’Unione) un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Lo stesso Joschka Fischer fu incostante, come ministro degli Esteri: nel famoso discorso all’Università Humboldt, il 12 maggio 2000 a Berlino, propose una Costituzione europea prima dell’allargamento. Poi fece marcia indietro, sulla scia dell’11 settembre, preferendo a istituzioni più forti un allargamento alla Turchia che desse all’Unione dimensioni geografiche più grandi. I criteri di Copenhagen, che impongono ai Paesi candidati non solo disciplina economica ma sovranità delegate e un riconoscimento della superiore autorità dell’Unione – ricorda Winkler – si persero per strada. È il motivo per cui l’allargamento ha funzionato male, e rischia di degenerare se il rafforzamento delle istituzioni non torna a esser prioritario.

Se a un certo punto scemano costanza e tenacia, è perché la crisi è una lama a doppio taglio: può produrre presa di coscienza ma anche nuove illusioni, e l’infausta passione dell’impazienza descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito: «L’impazienza esige l’impossibile, cioè il raggiungimento del fine ma senza i mezzi». Nell’Unione, l’impazienza ti fa credere che basta invocare l’Europa, senza darle i mezzi per esistere.

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