Il richiamo di quella che qualcuno ha chiamato “Primavera Araba” è fortissimo. tahrir-3Fa balenare scenari nuovi, inattesi, sorprendenti. E, come tutto ciò che irrompe inaspettato fa paura, ma – insieme sollecita speranze. In fondo questo è l’insegnamento della storia. Avrei voluto approfondire e commentare con qualche mia parola i fatti ultimi sui quali ho cercato di tenermi informato. Poi, fortunatamente, mi sono imbattuto in una straordinaria analisi di Fulvia Maria De Feo che propongo così com’è. In essa mi rispecchio molto. Per l’equilibrio e – insieme – per la vision decisamente contemporanea e realistica.
Il richiamo della libertà
Nessuno, assolutamente nessuno può prevedere cosa sarà l’Egitto nei prossimi mesi e anni. Le variabili in gioco sono tante, e tutte di enorme peso. Non devo specificare quali siano: cadremmo in stancanti ovvietà.
Ognuno fa le sue analisi in base agli strumenti che la vita – sotto forma di conoscenze e/o esperienze – gli mette a disposizione. Io, dal mio microscopico punto di vista, rifletto sul fatto che il paese in cui sono cresciuta – la Spagna – ci ha messo sei anni per passare da una dittatura a una democrazia compiuta: dal 1976 al 1982. E sono stati sei anni delicati come il cristallo e fatti, soprattutto, di mediazioni: mediazioni tra l’esercito e la popolazione, mediazioni tra le spinte più destabilizzanti della società per includere il grosso dei suoi componenti (penso ai baschi) ed isolare gli irriducibili (penso all’ETA), mediazioni in ogni settore del vivere comune con sempre, sullo sfondo, il serio rischio – e anche il desiderio, per molti, tra cui larghe fette di insospettabili – di ritornare indietro, nella comoda cuccia dello Stato autoritario che, certo, ti limita nella libertà ma, al contempo, ti solleva da infinite responsabilità. Ricordo il lavoro di educazione alla democrazia svolto da un’élite culturale, attraverso i media, su una popolazione abituata a sfoggiare adesivi franchisti all’interno del proprio portafoglio, per mostrarli alla polizia qualora gli venissero chiesti i documenti. Non sono passati mille anni: era l’altro ieri, io me lo ricordo, eppure – sì, è vero – sono passati mille anni.
L’Egitto non è in Europa ma al confine con Israele e, culturalmente parlando, al centro del mondo arabo. Oggi più che mai. Ripeto: non vale la pena di sottolineare delle ovvietà, anche perché non è di alcuna utilità farlo: se ci concentrassimo su questo torneremmo ai discorsi dell’altro ieri, ci terremmo Mubarak e, dopo, il suo ripugnante figlio Gamal, l’uomo più odiato dal popolo egiziano.¹
Il fatto è che in Egitto è successa una cosa enorme che non potrà mai più essere dimenticata. Letteralmente: enorme. Destinata a rimanere scolpita per sempre nella carne, nel centro del cuore e del cervello dell’intero mondo arabo e non solo. C’è un prima e un dopo, rispetto a una rottura simile, e non esiste analisi che possa prescinderne.
Non voglio essere enfatica, per quanto la tentazione sia forte. Credo solo che si debba guardare al futuro tenendo ben presente il risultato che, intanto, il popolo egiziano ha già portato a casa.
1) Gli egiziani hanno polverizzato in 18 giorni tutto l’impianto teorico di matrice americana e israeliana con cui, fino al 25 gennaio, abbiamo interpretato il Medio Oriente. Non c’è nulla, non un singolo tassello di quell’impianto, che abbia retto di fronte a ciò che è avvenuto: dal rapporto tra cristiani a musulmani all’integralismo religioso, dal ruolo delle donne allo stereotipo sull’irrazionalità delle masse arabe, dall’arretratezza culturale alle pulsioni violente, dall’incompatibilità con la democrazia all’odio verso Israele come presunta priorità popolare: niente. Non è rimasto in piedi niente, niente ha retto di fronte alla prova di realtà.
Il mondo, che oggi ha visto le famose “masse arabe” intente a ripulire il paese, a fare la raccolta differenziata in piazza Tahrir, a rimettere i sanpietrini esattamente nello stesso selciato da dove li avevano presi in prestito per difendersi durante la rivoluzione, può solo rimanere ammutolito e ripetere, come sento la gente ripetere da giorni, che magari noi fossimo civili e politicamente coinvolti, fiduciosi nel futuro come gli egiziani. Le categorie mentali che abbiamo usato fino ad oggi sono vecchie, stantie. Siamo lo stesso popolo che, nel 2003, invadeva l’Iraq e che oggi, dopo la rivoluzione egiziana, fa fatica anche solo a considerare una democrazia egiziana fatta da un popolo che vota sul serio, perché ci mancano le parole per figurarcelo. Molto semplicemente, abbiamo bisogno di nuove parole e di nuovi concetti per raccontarci cos’è il popolo arabo. E questo è un dato acquisito, non è destinato a cambiare. Se anche, domani, l’esercito impazzisse e facesse calare una cortina di ferro sull’Egitto, la verità di quanto è successo rimarrebbe documentata da mille immagini, da mille racconti in diretta, da mille telecamere puntate.
Quello che gli egiziani hanno fatto, rimane per sempre. Nessuno glielo può più portare via. A noi tocca farci i conti: siamo costretti a piegarci di fronte alla realtà.
2) L’ho scritto all’inizio della rivoluzione: il popolo egiziano – un popolo di ragazzi, dall’età media bassissima – aveva psicologicamente bisogno di tutto questo. Aveva bisogno di un capovolgimento mentale, di liberarsi da barriere psicologiche enorme, soffocanti, paralizzanti. Questa è stata una catarsi collettiva che ha coinvolto una generazione intera, e questa generazione rimarrà marchiata a fuoco, per sempre, dagli eventi di cui è stata protagonista. Recuperare la stima, il rispetto, la leadership culturale di tutto il mondo arabo. Sbalordire il pianeta. Ridiventare, da un giorno all’altro, Umm al Dunia, la madre del mondo. Scoprirsi esempio, modello per chiunque lotti per la dignità e la libertà. Ma chi glielo toglie più, ditemi? Chi li piega più? Chi glielo strappa più da dentro, l’immenso orgoglio di essere stati perfetti, eroi civili, scardinatori di tutti gli interessi del pianeta con la sola forza della consapevolezza di essere dalla parte del giusto? Oggi sono milioni di ventenni: se anche domani dovessero soccombere di fronte alla più spietata delle repressioni, dopodomani si ritroveranno comunque ad essere sopravvissuti ai loro persecutori: ai vecchi. Noi siamo di fronte a una generazione di ragazzi che ha preso su di sé la responsabilità di fare del proprio paese un luogo migliore. Che ha riscattato i propri padri e che lavora per i figli che verranno. Non c’è niente da fare: quando un’intera generazione che, per giunta, rappresenta la maggioranza di un paese, spalanca in modo così radicale la propria mente di fronte al futuro, non c’è forza che li possa fermare. Il tempo ucciderà noi e loro saranno ancora vivi, e adulti. L’Egitto non sarà mai più lo stesso. E l’Europa, se avesse un minimo di memoria storica, dovrebbe saperlo. Ci siamo passati, e anche molto meno eroicamente.
Ma, dicevo, non voglio essere enfatica. Voglio solo fare i conticini, come una ragioniera, di ciò che gli egiziani hanno portato finora a casa. Sto quantificando il capitale ottenuto. Non è colpa mia se è un capitale che richiede concetti forti per essere espresso.
La transizione sarà lunga, difficile, piena di insidie e di false partenze e di falsi arrivi. Tutte le transizioni lo sono. Io credo che non dovremo cercare di inseguire la cronaca, nei prossimi tempi. Certo, è importante sapere cosa farà Tantawi e cosa farà Moussa, cosa vogliano dire i militari nei loro comunicati e cosa succederà nei prossimi scioperi: è importante, ma è parte di uno scenario destinato a rimanere fluido, molto fluido, per i prossimi anni. La Spagna ci ha messo sei anni, ripeto. Ed era la Spagna.
Si dovranno formare delle leadership che, oggi, possono essere solo provvisorie, di tamponamento. La spinta democratica dovrà inspessirsi, crescere all’interno di contenuti che si andranno formando man mano, col procedere degli eventi e dei problemi.
Bisognerà anche mediare. Liberando la parola “mediazione” dall’ambiguità, dalle connotazioni truffaldine di cui l’hanno impregnata coloro che chiedevano alla gente di “mediare” PRIMA di avere ottenuto il risultato vero, il momento simbolico capace di marcare il non ritorno, la cacciata del dittatore.
Bisognerà ripulirla, quella parola, e riportarla al suo vero significato, che non è sinonimo di ‘sconfitta edulcorata’. Mediare è necessario per stare al mondo, figuriamoci se non lo è per cambiare il Medio Oriente.
Intanto, i 18 giorni che hanno cambiato l’Egitto e il mondo meritano di essere assaporati, rivisti e celebrati, studiati e approfonditi ancora a lungo.
Oggi ho visto con piacere questo video di 27 minuti intitolato“Le donne di piazza Tahrir“². E’ un buon reportage con delle interessanti interviste tra cui quella, appassionata e analitica insieme, alla scrittrice Ahdaf Soueif, e quella alla giornalista Shahira Amin che, nel mezzo della rivolta, ebbe il coraggio di dimettersi dalla TV di Stato perché non voleva più raccontare bugie di regime. Lo consiglio.
Infine, volevo anche dire che una rivoluzione del 2011, fatta da ragazzi e partita dai social network non poteva non avere i suoi videoclip. Una rivoluzione fatta da ragazzi arabi non poteva non avere il suo videoclip di pop arabo.
Se il pop arabo non vi piace, vi capisco ma passate oltre. Io ci ho un debole, invece, e me le sto sentendo tutte. Questo è il videoclip che sta circolando di più, mi pare, e il ritornello dice: “In ogni strada del mio Paese, la voce della libertà chiama.” Qui c’è lo stesso video con i sottotitoli in inglese.
¹ Sopra accennavo a Gamal Mubarak. In questo video, il delinquentello in questione reagisce alla domanda di un giornalista che gli chiede quale candidato potrebbe essere espresso dall’opposizione: Kefaya, Fratelli Musulmani, giovani del 6 Aprile, movimento di Facebook etc. Si tratterebbe di discuterne. Guardate invece come reagisce, il delfino di papà. Adesso non gli viene più tanto da ridere, suppongo.
² A proposito di donne in piazza: Al Jazeera, bontà sua, dedica spazio anche alle nostre, di donne, e alle nostre piazze. Vedersi tra i popoli che cercano di liberarsi, mentre si è lì a cercare l’Egitto, fa sempre bene.

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